Nota di lettura a "Quinto quarto" di Alessio Verdone
Quinto Quarto (Ensemble, 2023) di Alessio Verdone è una raccolta in cui il corpo diventa lo strumento per soppesare la conformazione che presentano le più disparate zone ombrose dell’esistenza, per poter giungere al nucleo delle cose. Da qui, la motivazione del titolo, che sottende in primo luogo il bisogno di fare i conti proprio con le frattaglie, con quanto rimane dopo che si siano già apportati i tagli principali, quelli considerati nobili. Per questo, discutere «di corpi fatti a pezzi, di una fisicità sanguinolenta, forse rabelaisiana», come sottolinea Paolo Giovannetti nella Prefazione al testo, vuol dire indagare a fondo l’incessante generare ed essere generati, significa non disumanizzare mai l’orizzonte poetico-indagatore.
I costanti tentativi operati dall’autore spingono a un approdo atto a osservare i tratti più intimi, il che, per realizzarsi, presuppone la capacità di riuscire a scomporsi fino al punto da spazzar via ogni possibilità di definirsi accuratamente col linguaggio abituale, che, sempre più, non fa altro che prescrivere il disfacimento dell’io. Quanto mostra Verdone nei punti focali di svariate composizioni che conformano le sezioni in cui è divisa la silloge è l’urgenza di appellarsi e coltivare la soggettività per riuscire a far convergere ogni singola azione in uno sguardo collettivo più compiuto.
Per quanto detto finora appare inevitabile far leva sulla forma diaristica per colorare gli orizzonti poetici. Il bisogno di tessere un racconto a partire dall’agire quotidiano riflette quell’incessante tendere verso l’altro, l’approdare in un noi capace di accogliere all’interno ogni singolarità. Questo agire, sotteso in ogni sezione, si incontra in modo lampante in Pronomi personali, in cui il continuo dibattere sull’io, multiforme, schivo e sfuggevole si pone oltre ogni resoconto filtrato. In merito, in Quinto Quarto si incontra una composizione lapidaria in cui sono palesi le difficoltà e le insidie del decifrare e del decifrarsi a partire dalla consuetudine: «E penso dico e scrivo sempre io / Però a nessuno racconto di me».
Tendere oltre ogni mero resoconto significa dimenarsi sugli enti, fucinarli affinché ci si possa concretamente aprire ad altri orizzonti conoscitivi. Pertanto, mettere i propri anfratti più insondati in rapporto col mondo esterno conduce a spiccare una determinata classe di nuove sensazioni visive, uditive e tattili – che si colgono con forza nell’Addendum conclusivo – e a fare del corpo un concreto strumento di conoscenza.
Per tutto questo, la poesia di Verdone si nutre di scorci d’esistenza e forma una campionatura di oggetti e di orizzonti che assumono spesso la consistenza di veri e propri detriti immersi nel caos dato dalla liquidità societaria. In tutto questo, come sottolineato in precedenza, il linguaggio poetico diventa diaristico in modo da partire dal bisogno di sottolineare la consistenza valoriale dei piccoli fatti del quotidiano. A conclusione, è opportuno riferire che le immagini vivide che ne fuoriescono dalle indagini compiute dall’autore non sono mai una sintesi statica. Se proprio se ne volesse parlare in tali termini, si dovrebbe discutere tutt’al più di una sintesi prettamente mentale, in cui si assiste a un fondersi di un tutto che solo teoricamente può stazionare in un determinato momento. Difatti, un agire siffatto non può mai ristagnare nella sua stessa conclusione poiché gli addendi non possono diventare una semplice somma, ma un qualcosa di nuovo, di non dato in precedenza.
Questo senso di novità, come ribadito nella Nota firmata da Massimiliano Cappello posta a conclusione della raccolta, si muove a partire da un reclamo, da un urlo che si insinua in ogni verso e che cerca la traccia, il disavanzo, le frattaglie: «Verdone sembra reclamare, dibattendosi tra un’espressione liberata e quella lingua strana del disastro, un “quantità” integrale, fosse anche in forma di residuo».

Le ore nuove erano nostre ormai
e l’entusiasmo stemperava nel biancore
l’urto si faceva meno urlante
e le speranze diventavano ordinarie
in pochi giri di orologio tornavamo
mediocri nelle nostre aspettative
ma una pioggia di ghiaccio dalle balaustre
ci aveva svegliato ancora di più
avevamo avuto tutto il nostro peggio
o il cielo si sarebbe annerito di più?
*
Goccia di inchiostro su foglio di carta
si allargava e sconfinava
tingendo di pece lo spazio circostante
i chiavistelli scattavano e l’aria
si irrigidiva – le apprensioni
si settavano ormai su tempi distesi
e il sole perdeva colore.
Stavamo apprendendo a misurare
il tempo di emersione delle cose.
*
Sparire sarebbe meglio per noi
adesso, e lasciare lo spazio del ricordo,
ritornare dove abbiamo aspettato
di partire, dove abbiamo rincorso
un respiro, quando un soffio d’aria
era tutto lo sforzo nel mondo, quando
dovevamo urlare per capire di essere
presenti, e ogni nostra azione era guidata,
per noi, dalla forza dell’istinto.
Sarebbe meglio per noi retrocedere ancora,
e addentrarci nel non-luogo dell’assenza. Da lì,
emettere un segnale inudibile e, poi,
tacere per sempre.

Alessio Verdone (Caltanissetta, 1995) è attualmente dottorando di ricerca in Visual and Media Studies presso IULM e in Literary Studies presso Universiteit Gent. Ha pubblicato la raccolta poetica Le contraddizioni (Transeuropa, 2020) Alcuni suoi testi sono stati raccolti in Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo, 2021).
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