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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Nota di lettura a "Le scarpe del flâneur" di Jonathan Rizzo

Il flâneur, passeggiatore svagato e a tratti curioso che cammina per le vie cittadine osservando il paesaggio e riflettendo oziosamente su tutto ciò che vede, divenuto figura emblematica nella poesia di Charles Baudelaire, è anche elemento nucleale nella trattazione di Walter Benjamin, che in esso ravvede il simbolo della modernità e della rivoluzione industriale. Entrambe queste declinazioni confluiscono nella raccolta Le scarpe del flâneur (Ensemble 2020) di Jonathan Rizzo, che costruisce i suoi versi proprio intorno a questa rappresentazione del vagabondo di cui, come evidente già dal titolo, l’attenzione è tutta spostata sui piedi e cioè sul movimento dell’errare. L’opera di Rizzo, infatti, è caratterizzata da un elevato dinamismo tramite il quale il lettore viene accompagnato nelle vie parigine e, più in generale, nelle strade di un pensiero che vuole divincolarsi dalle maglie sottili della convenzione e di tutti gli ipse dixit. C’è in Rizzo, e lo sottolinea puntualmente Marco Incardona nell’ottima prefazione che apre la raccolta, una convivenza fruttuosa tra serio e faceto, tra rigore e irriverenza, verso la vita e verso la poesia che, in questo autore, non possono essere slegate né poste su piani differenti. Baudelaire scriveva che l’artista deve essere «un botanico del marciapiede» ovvero un fine conoscitore del mondo intorno a sé, ed è proprio in questa appartenenza viscerale dell’arte al vivere e viceversa che Rizzo pone le fondamenta della sua scrittura nella quale, accanto alla rielaborazione consapevole del dato biografico, si agita forte la volontà di esprimere il proprio parere su una società troppo lontana dall’essere un modello di giustizia, verità e bellezza. Le scarpe del flâneur offre la possibilità di tornare a riflettere sul valore e sulla funzione sociale della poesia, contestualizzata da Rizzo all’interno della realtà contemporanea, strabordante di logiche capitalistiche e processi di mercificazione. Che senso può ancora avere la poesia? Chi sono oggi i poeti? Sono queste le domande sottese a tutta la raccolta, nella quale Rizzo non nasconde pure una certa nostalgia per un tempo altro, una sorta di età dell’oro, lontanissima o mai stata, alla quale occorre però, seppur utopisticamente, volgere lo sguardo per provare a rintracciare un senso, una direzione e proseguire nella scrittura e nell’esistenza con energia e coraggio. E sono proprio questi ultimi due elementi a contraddistinguere la poesia di Rizzo, impegnato in un moto continuo da cui sarebbe buona cosa farci trascinare.


Belleville


Passeggiare senza direzione alcuna.


Vestiti a fiori sbocciati al primo sole.


Sorrido a una bambina,

lei ride,

e anch’io mi sento leggero.


Uomini scalzi

in cammino fin da lontano

hanno bisogno di respirare

pacifici paradisi ideali

di nuvole soffici.


Sacchetti di plastica

rivoli gonfi

scoppiano

sotto il peso

delle nostre automobili,

nell’indifferenza dell’universo.


Bighellono tra le bancarelle di un mercatino,

ma non compro nulla.


Anche solo un quadretto

supera il volume delle mie tasche.


Allora

appena

passeggio

tra pelle nuda

di belle ragazze luccicanti

sotto il sole gentile che sorride.


L’astro come esca

prosciuga l’umanità

dalle sue soffitte ammuffite,

dirigendo l’orchestrina

al gran ballo della leggerezza.


Assisto colpito

a uno spettacolo improvvisato,

francesi di strada

e marionette d’asfalto

urlanti

nella Tempesta shakespeariana.


Unico concentrato

tra un pubblico

distratto e annoiato.

Tempi duri per i poetici.


Ospiti

d’onore

alla sagra della primavera.


Su un vialetto senza tempo

accarezzati

dall’ombra della fronda,

fili di sogni

per vecchi cappelli

di paglia

danzanti nel vento,

come echi di giochi

per bambini curiosi.


Gli innamorati

persi in uno sguardo

accarezzano trame di seta

pettinando silenzi intensi,

come se il mondo attorno

rallentasse

fino al fermo immagine.


Tra i rami

pirati e avventurieri

solcano i mari

della fantasia,

dove si naviga senza bussola.


Curve di nude onde circondano

come teneri squali innamorati

le mie carni

e ne dilaniano le membra.


Una madre accompagna

alla vita la figlia dolcemente.


La protegge mentre

fa pipì

su un arbusto accanto

ad altre roselline.


Verde età

dove libertà

non rima con severità.


All’angolo della strada

un uomo felice suona

un organino a manovella

cantando Trenet e la Piaf.

Due bambini lo ascoltano rapiti,

lui canta sorridente

scandendo bene la voce.


Il fratello maggiore da loro

due monete luccicanti.

Il sorriso si fa largo nell’uomo,

come i giri della manopola.


I bimbi emozionati

fanno scivolare

i piccoli cerchi argentei

nel secchiello che tintinna,

e per un attimo siamo tutti felici.


Con le mani in tasche

bucate

d’amore e follia,

perso nel cielo terso,

riempito di azzurra nuvola

l’anima scivola

su alcune leggere gocce di cuore

fino a dipingere il tramonto

di perle viola.


Seven Eleven


Voglio qualcuno di mio

da accudire.


Un nuovo giglio d’amare.


Ma le persone non le puoi possedere,

questo lo devi accettare.


Meno male che nel locale

per giovani

in cui sto bevendo

a poche lire

suoni nelle aree

il primo Bob Dylan,

quello facile senza sudore.


Brucino le anime

nel fuoco del desiderio.


Le fiamme le inghiottano

con fare cupo e serio.


Si liberi il demone,

possa danzare la penna

nuda in controluce

nel crepuscolo.

Cerco un lieto fine,

ospite non abituale

tra le mie righe.


Non che la vita scriva

trame migliori,

al massimo

intrecci comici

assenti di rime e baci,

forse appena quelli fugaci.


Però ho il vocabolario

e i dadi alla mano

da far rotolare.


Numeri neri ruotiamo

in un bicchiere

dal fondo amaro.


Siamo la somma che fa sette e undici,

donne e uomini.


Fragili esseri umani,

codici binari

di un meccanismo estraneo.


Gettati in un vortice

senza regole

né logiche.


In balia dei morbidi sensi

con malia nei sordidi versi.


Gli aggettivi sono i balocchi

degli sciocchi,

imbattibile lo è il poeta

nel suo genere.


Scrivere d’amare

cercando alla cieca

tra le povere parole

il di lei odore.


La memoria e il suo decadere,

crudeli testimoni del nostro pudore.


Sette e undici vittime

della teoria del caos.


Jonathan Rizzo (Fiesole, 1981) di radici elbane, studi storici fiorentini, rinascita parigina. Ha pubblicato L’Illusione parigina (Porto Seguro, 2016); Eternamente Errando Errando (LaSignoria, 2017); La Giovinezza e altre rose sfiorite. Ritratto del poeta che fu (Ensemble, 2018); Le scarpe del Flâneur (Ensemble, 2020). Gode d’esperienza di regia e speaker radiofonico per la trasmissione “Al bar della poesia” in onda sulla web radio Garage radio nel 2020, è Curatore del programma di arte e cultura alternativa “JHONNYSBAR altre forme d’arte” sulla web tv del portale STYLISE.IT dal gennaio 2021, collaboratore/curatore per la programmazione culturale di diversi caffè letterari in Toscana ed organizzatore di happening artistici e reading poetici in tutta Italia ed in Francia. In fine Poeta performer, marinaio e nomade.

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