Nota di lettura a "La buona educazione" di Ivan Fedeli
Non è una novità che il Tempo, uno dei grandi interrogativi tanto della scienza quanto delle Lettere, si faccia oggetto in poesia, e tuttavia sfugga al controllo del suo autore conservando un’agentività che muove le parole e fa accadere la vita. In “La buona educazione” (Puntoacapo, 2021), Ivan Fedeli prova a raccogliere il tempo già accaduto e a tenerne i fili come una vecchia marionetta che ancora può far succedere qualcosa. E i fili si animano e passano attraverso cose, ricordi, persone, ritessendo una nuova storia e provando ad «aggiustare il tempo». Così di nuovo si srotolano le vecchie vite che per un momento sono sembrate interminabili, i ricordi d’infanzia «tra un panino al burro e / la bambina al piano sotto che gioca» e quelli sui banchi di scuola, il «sussidiario da studiarci» e il bidello Cesare, «la cartella sulle spalle tu che / ridi e canti e conti i passi da qui / a scuola». Poi sono gli anni Settanta, un altro tempo e un peso che si avverte anche negli occhi di un bambino, lo sguardo della Lollobrigida, cantare Modugno e Pasolini che non c’è già più. Come sottolinea Bertoni nella prefazione, la narrazione, cucita ben saldamente in un macrotesto, passa attraverso nomi e toponimi ben precisi, pubblici e privati, che richiamano con dolcezza a un tempo a cui si è voluto bene, fatto di una semplicità mai superficiale. Testi come “L’Elena del Settantadue”, “Adelina”, “Il bacio” rimandano a una tradizione neorealista cinematografica che procede per immagini tra juke box, ragazzini per le strade con i palloni e la guerra alle spalle, ma anche a quella letteraria dei racconti della Ginzburg, di Pratolini e Moravia per i sentimenti che si fanno più vivi del reale e diventano scuola. Anche la Storia che passa attraverso questi ricordi non sembra un fatto di cronaca, ma piuttosto la percezione sgranata e distratta di un bambino che, pur inconsciamente, assorbirà il peso di certi fatti per rielaborarli poi. In “La memoria”, mentre il mondo apprende dell’uccisione di Aldo Moro, quel bambino «pensava ai fumetti di Bee Gees», eppure ecco che ora l’evento riaffiora in poesia. E Fedeli compie una scelta saggia, quella di ricorrere alla memoria infantile del cuore per curare il tempo, per renderlo un tessuto setoso e così lasciarlo andare.

Il bacio
Dimmi un bacio cos’è ne eri curioso
mentre al juke box meravigliosamente
La Bertè con Sei bellissima. Cose
da grandi ci pensavi e ti bastava
nelle mattine lunghe e al mare quando
si scompare all’orizzonte la mano
nella mano e l’Adriatico accanto
a far contorno. Forse li invidiavi
un po’ i ragazzi i loro sguardi pieni
di luglio e di promesse buone ma
era usanza così che chi fa i sogni
sa sognare. Ancora troppo per te
in quell’estate colma d’aria e ciottoli
nell’acqua dove a gara si tirava
a contar rimbalzi fino a tardi e
si era maschi o femmine nient’altro.
Fortuna il martedì il pallone al campo
Improvvisato tra parcheggi e sassi
poi i tiri a svolazzare in libertà.
Nessun segreto di carezze insomma
solo i vagoni da contare e il treno
merci interminabile fino all’ultimo
respiro. Accadeva allora un silenzio
complice e via di un fiato a far baccano
alle coppiette dietro gli oleandri.
Dopo tutta una corsa a casa e tu
chiedevi degli angeli se si baciano
ogni tanto. Sbuffavano i tuoi
che c’era di ben altro da pensare
mentre un sorriso spuntava qua e là
nemmeno il fatto appartenesse a Dio
o ne tenesse il senso in sé una nuvola
rimanendo incomprensibile ai più
fino a evaporare altrove svanire.
La memoria
Era il giorno di Aldo Moro un martedì
che nessuno sa se il sole le nuvole
tuo padre il turno di notte tu a scuola
la ginnastica poi le bionde trecce
di Battisti che tutto ripara.
E noi si masticava cicche a gara
senza capire chi che cosa solo
immaginando a fine d’ora i salti
dopo il compito annullato e il mondo
andava proprio come Dio comanda.
A casa tua madre la canottiera
in lana da togliere che è maggio e
il coraggio di ridere del meglio
poi i versi di Quasimodo la sera
che a ricordarli proprio non si può.
Bisognava crescere in fretta forse
forse restare piccoli per sempre
quasi in quel sempre resistesse il bello
di un’epoca bella e nient’altro più
se non la memoria che torna e
lascia di sé la storia dei calzini
spaiati sotto il letto e i primi giorni
in giro noi e le femmine che va
bene anche così a suonare i citofoni
e scappare. Comunque era un brav’uomo
dicevano in tele di quelli veri
ma tu pensavi ai fumetti ai Bee Gees
da conservarli ancora un po’ dentro
prima dei blue jeans lunghi e le bugie
raccontate dopo il primo bacio
agli amici che non si capisce bene
se c’è stato o non c’è la verità
ma solo una finzione un mezzo inganno
buttato lì in attesa di un sorriso.

Ivan Fedeli (1964) insegna lettere e si occupa di didattica della scrittura. Ha pubblicato diversi percorsi poetici, tra cui Dialoghi a distanza in Sette poeti del Premio Montale (Crocetti), Virus (ed. Dot. Com. Pres.), A margine (Ladolfi editore) e, per i tipi di puntoacapo Editrice, Campo lungo (2014, Premio “Casentino”), Gli occhiali di Sartre (2016, Premio San Domenichino, Premio “Vent’anni di Atelier”, Premio “Arcore”), La meraviglia (2018, finalista Premio “Caput Gauri”).
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