Le Antichità di Alma (appuntamento n°11)
- Martina Toppi
- 14 mar
- Tempo di lettura: 7 min
SENZA PAROLE: LO SFORZO DEL DIRE POETICO DA SAFFO AD HAN KANG
«Χαλεπά τὰ καλά
chalepà tà kalà
Le cose belle sono belle.
Le cose belle sono difficili.
Le cose belle sono nobili.
Nessuna delle tre traduzioni è corretta. Nell’antica Grecia bellezza, difficoltà e nobiltà non erano ancora concetti separati. Proprio come in coreano la parola 빛 (bit) significava sin dalle origini sia “luce” che “colore”».
La protagonista de L’ora di greco, romanzo del 2011 di Han Kang (pubblicato nella traduzione italiana di Lia Iovenitti, Adelphi 2023), autrice insignita del Nobel per la Letteratura nel 2024, ha perso l’uso della parola. La sua storia si intreccia con quella di un uomo che, invece, sta progressivamente incamminandosi verso la cecità. I loro ricordi e le sensazioni provocate dalla perdita di uno dei cinque sensi – che è, rispettivamente per entrambi, quello fondamentale per lo sviluppo della personalità e l’approccio al mondo – diventano l’espediente letterario per raccontare la ricerca di una capacità di comunicare andata perduta con il trascorrere delle generazioni umane. Un tentativo di costruire ponti linguistici la cui risoluzione, per l’autrice, sembra celarsi nello studio delle lingue antiche e del greco in particolare.
«πατεῖν
μαθεῖν
Questi due verbi significano “soffrire” e “apprendere”. Sono quasi identici, vedete? Qui Socrate ricorre a una sorta di gioco di parole per dirci che si tratta di due atti simili».
Nelle sue lezioni di greco antico, l’uomo ormai prossimo alla cecità cita spesso Platone che, nel romanzo di Han Kang, è guida per discendere nei misteri della lingua greca tanto per il lettore quanto per la protagonista senza nome. Vediamo spesso la donna sfogliare le pagine della Repubblica, in un’edizione bilingue greco antico-coreano. La scelta di studiare il greco antico, per lei, non è causale: la sua speranza è che questa lingua lontanissima nel tempo la aiuti a scogliere il blocco amaro che la madre lingua, il coreano, le ha lasciato nella gola. Un blocco che nemmeno lo psicologo che la segue è riuscito a comprendere appieno, nonostante il tentativo di attribuirne l’origine ora al trauma della perdita della custodia del figlio, ora a quello della morte della madre, ora al divorzio dal marito. Ma non è così semplice: la protagonista aveva già perso la facoltà di parola, in passato, quando era solo una bambina e nessun trauma simile l’aveva investita. Impossibile dunque ricondurre l’assurdo della perdita di parola a qualsivoglia forma di razionalità. La promessa del greco antico, per la donna, è quella di una lingua che per secoli nessuno ha più parlato, una lingua silenziosa che le viene insegnata da un uomo sensibile alle sofferenze che aleggiano nel mondo e intorno a lei, in quanto partecipe.
«[…] le capitava di sognare una parola che condensava tutte le lingue dell’umanità. Era un incubo così realistico da lasciarle la schiena fradicia di sudore. Una parola che, se qualcuno l’avesse pronunciata, sarebbe esplosa all’istante, espandendosi come la materia al principio dell’universo»
È il linguaggio, il suo uso e il senso, l’ostinato sforzo di comunicare il perno del romanzo di Han Kang. Un romanzo che svuota di personificazione uomini e donne che si muovono tra le sue pagine per introdurre il lettore in un percorso riflessivo e intimistico, ma al tempo stesso universale. Ogni capitolo, scritto ora dal punto di vista della donna, ora da quello dell’uomo, è un tuffo nel passato dei due protagonisti e nelle sensazioni provocate dal senso, la vista per lui, la parola per lei, perso col tempo. E se non mancano le spiegazioni scientifiche (la donna si dice convinta in più punti che il suo problema sia neurologico, come se si fosse rotto o bloccato in lei «il passaggio che porta al linguaggio», mentre l’insegnante di greco ricorda il momento in cui suo padre divenne cieco, per via dello stesso disturbo genetico di cui anche lui è affetto), ogni interpretazione è in via definitiva sospesa in nome di un senso ulteriore, solo accennato nei passaggi in cui Platone viene citato, a più riprese.
«Questo è un luogo da cui è difficile
avanzare in qualunque direzione.
Dove regna un’oscurità impenetrabile
ed è difficile trovare alcunché».
L’incomunicabilità della donna de L’ora di greco è direttamente inversa rispetto alla proficua produzione letteraria di Saffo, sacerdotessa e poetessa greca di Lesbo, nata intorno al 640-630 a.C. Esponente della corrente poetica greca della lirica monodica e contemporanea di un altro noto poeta dell’epoca, Alceo, che come lei apparteneva all’aristocrazia di Lesbo, Saffo è un’autrice estremamente prolifica. La sua produzione poetica affonda le radici nel tìaso, una confraternita religiosa consacrata alle Cariti e ad Afrodite, di cui lei stessa è sacerdotessa. Il suo compito è quello di ospitare nella propria casa fanciulle di ceto elevato e di costruire insieme a loro una comunità educativa, al capo della quale si pone, con l’obiettivo di accompagnarle e prepararle alla vita matrimoniale. Di Saffo sappiamo molte cose, grazie alla costante compenetrazione di elementi soggettivi e oggettivi che caratterizza i suoi scritti. Ma la chiave della sua poetica è soprattutto la capacità di tradurre in immagini concrete sensazioni e sentimenti che sì nascono dalla sua esperienza personale, ma si fanno immediatamente traduzione di un sentire universale e condiviso da ogni essere umano.
«Quale la cosa più bella
sopra la terra bruna? Uno dice “una torma
di cavalieri”, uno “di fanti”, uno “di navi”.
Io, “ciò che s’ama”.
Farlo capire a tutti è così semplice!
Ecco: la donna più bella del mondo,
Elena, abbandonò
il marito (era un prode) e fuggì
verso Troia, per mare.
E non ebbe un pensiero per sua figlia,
per i cari parenti: la travolse
Cipride nella brama.
[…]
Anche in me d’Anattoria
ora desta memoria, ch’è lontana.
Di lei l’amato incedere, il barbaglio
del viso chiaro vorrei scorgere
più che i carri dei Lidi e le armi
grevi dei fanti».
(Saffo, fr. 16 V. nella traduzione di F. M. Pontani)
Il tìaso è una scuola, ma appunto, anche una comunità entro cui il vincolo umano che lega fanciulle e sacerdotessa è di natura omosessuale (così com’è norma anche nell’eteria, il corrispondente maschile, anche se con un indirizzo più politico, del tìaso). L’amore vissuto all’interno di questo percorso educativo è lo stesso che permea la poesia di Saffo, che delle sue fanciulle è sia maestra che amica. Ma non è un amore romantico, bensì uno strumento pedagogico. Saffo con la sua poesia d’amore insegna alle fanciulle le regole stesse dell’amore, che un giorno, vicino o lontano che sia, dovranno vivere in chiave matrimoniale. L’amore è anche il filtro attraverso cui Saffo interpreta e racconta la dimensione femminile della sua epoca. È valore assoluto, proprio come si rivela nel romanzo di Han Kang, perché condiviso e condivisibile con qualsiasi altro essere umano.
Così la poesia di Saffo, partendo da spunti assolutamente personali e soggettivi, diviene letteratura collettiva al servizio di una comunità.
Il percorso che conduce nell’una e nell’altra autrice prese in esame dall’incomunicabilità dell’io, inteso come soggetto unico e pertanto incomprensibile a qualunque altro, alla piena condivisione, (seppure conquistata con fatica ne L’ora di greco), è la presa di coscienza della condivisione di un mondo, prima ancora che di un sentimento.
L’ora di greco, dove forme narrative diverse, dalla lettera alla poesia al monologo interiore, si alternano, così come la poesia di Saffo, è intrisa di attenzione per l’atmosfera che circonda l’io parlante. In particolare, la notte e la luna rivestono un ruolo fondamentale tanto per Saffo quanto per Han Kang, (che grandissima attenzione pone anche all’evento meteorologico della neve), per la loro potenza evocativa che dapprima conduce alla presa di coscienza della solitudine entro cui ciascun individuo è chiuso.

«È tramontata la luna
insieme alle Pleiadi
la notte è al suo mezzo
il tempo passa
io dormo sola».
(Saffo, fr. 168b V. nella traduzione di G. Guidorizzi)
«La notte non è quieta. Il frastuono dell’autostrada qualche fila di case più avanti le riga i timpani come innumerevoli lame di pattini. Le magnolie viola, che hanno iniziato a spargere ovunque i petali ammaccati, brillano alla luce dei lampioni. Lei cammina in mezzo alla sensualità della piena fioritura che incurva i rami, nell’aria di questa notte primaverile in cui par già di avvertire il sentore dolce di petali calpestati. Di tanto in tanto si passa le mani sul viso, pur sapendo che sulle sue guance non scorre nulla».
Ma è in questi momenti di riflessione intimistica, che talvolta consentono il ponte verso il passato e quanto si è sperimentato senza pienamente comprenderlo sul momento, che tanto la poetessa di Lesbo quanto la donna senza voce de L’ora di greco hanno modo di cercare le parole per dire ad altri sé stesse. Percorso più immediato, maturo e meno doloroso per Saffo che per la protagonista di Han Kang, che insegue però nello studio di quella stessa lingua con cui la sacerdotessa di Afrodite trovò il modo di rendere universale quanto di più personale ciascuno custodisce, il comune desiderio di dirsi. Protagonista diventa allora proprio il greco antico, che con la sua impalcatura meno ordinata e rigida delle lingue contemporanea, rende possibile la semplificazione del complesso che ci circonda, senza mai sminuirne le sfaccettature, ma riportando l’essere umano alla funzione più infantile del linguaggio: far sapere all’altro della propria esistenza.
«Vorrei davvero essere morta.
Lei mi lasciava piangendo,
e molte cose mi disse e poi questo:
“Ah, come terribilmente soffriamo,
Saffo, io contro voglia ti lascio!”.
E io le risposi:
“Addio, e serba memoria di me,
tu sai quanto ti amavo.
E se non sai, io voglio
che tu rammenti…
… le belle cose che facemmo insieme:
molte ghirlande di viole,
e di rose e di croco
… ti ponevi sul capo al mio fianco
e molte corone intrecciate di fiori
cingevi attorno al tenero collo
e ti ungevi di unguento odoroso
e di profumo regale,
sopra un soffice letto
il desiderio…».
Saffo, fr. 94 V, nella traduzione di G. Guidorizzi).

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