«Dell’Antico che s’aggira»: recensione a “Campi d’ostinato amore” di Umberto Piersanti
Dalla nuova raccolta di Umberto Piersanti, Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020), andrebbero imparati o riportati al cuore e alla mente due concetti fondamentali, spesso però tralasciati o trattati come cosa di poca importanza. Rispetto e compassione: sono queste le direttrici lungo le quali si snodano i versi dell’opera; versi, occorre dirlo subito, pregni di una musicalità propria di chi la poesia la fa davvero e da molto tempo. Il rispetto è quello che Piersanti manifesta verso le sue origini, verso i luoghi che gli hanno dato i natali e che lo hanno accolto, verso gli affetti più cari del prima e del dopo: sorprende la grazia con la quale il professore urbinate accarezza l’anima delle Cesane, zona collinare intorno a Urbino, e di coloro che la abitano e l’hanno abitata: natura e umano, pur conservando ognuno le proprie caratteristiche anche grazie alla perizia lessicale con cui Piersanti aggettiva e sostantiva l’ambiente agreste, si fondono e diventano il vettore di origine e la meta dell’opera, che sfiora la superficie per stare poi tutta in profondità. Lo sguardo di Piersanti, infatti, aperto a raggio su ciò che sta fuori, si appoggia da prima sul dentro, definito dall’intimità del ricordo e dalla rievocazione di tutto quello che lo costituisce: un profumo, un volto, la scelta di un termine: «vegelia, così chiamavi / madre quel fiore / dal calice allungato / e dal profumo antico». Compassione è, invece, l’atteggiamento simbiotico attraverso il quale Piersanti si pone rispetto a ciò che è accaduto e a ciò che accade e nei confronti di quell’altro che è lui stesso nel tempo; «umana cosa è l'avere compassione degli afflitti» scriveva Boccaccio e in Campi d’ostinato amore gli afflitti sono le diverse età nelle quali intravediamo il poeta e le sue persone amate: Piersanti opera un importante processo di mitizzazione del passato, senza per questo proiettarlo in un tempo artefatto; è infatti spostandosi con autenticità sul proprio ciclo vitale che Piersanti convince e commuove, conscio che il già vissuto occupi, mentre scrive, più spazio del presente e del futuro: «altri sono i miei anni, / come quelli dei vecchi / che sanno storie, / oggi le storie / i giovani le hanno / scritte sui vetri / con la pelle confusi / dentro le mani».
L’amore viscerale per la natura, traccia costante nella produzione di Piersanti a partire da I luoghi persi (Einaudi 1994) fino ad arrivare a Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015), diventa in Campi d’ostinato amore sfondo e primo piano, comparsa e protagonista; l’atmosfera di nostalgia attiva e nobile tristezza che viene ricreata in questa raccolta è frutto, più di tutto, della vividezza con la quale il poeta riesce a fare uscire dalla memoria i suoi luoghi e porli davanti ai suoi occhi e a quelli del lettore, perché nulla si dimentica se viene raccontato: «la biscia nella pozza / che poi s’acquatta / tra ciclamini pallidi, / d’ottobre, / la gioia che t’afferra / quando ascolti / i frulli d’ali / tra folti ceppi / e rami». Ugualmente accade per gli affetti, dal momento che in questa raccolta, come anche prima sottolineato, paesaggio del dentro e paesaggio del fuori procedono per linee parallele sovrapposte e, dunque, distinte ma strettamente unite: «madre, così lontani / i volti / oltre la nebbia sconfinata / - un fumo li disegna / appena, appena / come ciocco ormai spento / fa nel camino - / dietro la casa antica». Eppure, non bisogna supporre nemmeno per un attimo che Piersanti sia alieno al suo tempo attuale o incurante di ciò che sarà dopo: per questo è bene discostarsi da chi parla di un’ossessione per il passato in quest’opera di Piersanti e da chi vi rinviene uno scollamento dal presente; le sezioni Jacopo e Primavera bugiarda (Nei mesi del Covid) ne sono una prova significativa.
La prima è dedicata al figlio, colpito da una grave forma di autismo, che nei versi del padre torna luminoso e splendente, perché l’amore – sembra volerci dire Piersanti – è in grado di sovvertire qualsiasi cosa, anche la malattia; la seconda è correlata alla stasi indotta dal primo lockdown, che tutti noi abbiamo conosciuto la scorsa primavera, definita dall’autore come bugiarda poiché, pur affacciandosi nella rinascita della natura dopo il periodo invernale, resta lontana dalla nuova vita delle persone. Nei versi di Primavera triste, appartenenti proprio a questo gruppo di poesie, Piersanti, richiamando sia Leopardi che Montale, arriva a esprimere una visione assai personale del rapporto uomo-natura in quel preciso frangente storico, nel quale la bellezza selvatica fiorisce, apparentemente incurante delle sorti umane, rimanendo tuttavia spoglia perché privata delle voci, dei passi, del calore, degli abbracci.
Piersanti, poeta arcaico, come lui stesso ama definirsi, ci porta indietro nel suo tempo, fatto di guerra, di famiglia, di natura e ci insegna che tutto può sopravvivere, pure quando le ginocchia iniziano a cedere, pure se la vita non ci ha dotato di tutti gli strumenti per esperire il mondo; così, come il flavagello che spacca il gelo e viene fuori, anche noi possiamo emergere dalle nostre sofferenze, dalle nostre difficoltà, dalle avversità del mondo. Anche noi possiamo sopravvivere alle ere e portarci via ciò che di più caro e bello abbiamo avuto. Possiamo farlo, e questo è il grandissimo insegnamento che Piersanti ci consegna, con la poesia. E con l’amore.
Facciamone tesoro.
Altrove
no, non in una foresta di simboli
questa casa
che non sai dove sia
ma fuori, fuori
da ogni plaga della memoria
anche la più remota,
da ogni storia e vicenda,
ma vera, vera
più d’ogni altro giorno,
d’ogni altra ora
che sia la più chiara
o la più cupa
qui le erbe sono le più verdi
e alte,
ondulate e morbide
dai colli scendono
alle case
il cerbiatto è lì,
poco distante,
dove l’acqua è più limpida,
alla fonte,
e tu lo guardi bere
e sei felice
dietro la casa
c’è una scala lunga
il solaio raggiunge
luminoso,
la paglia lo rischiara
fin’oltre i vetri,
no, non ci sono gli angeli
ed i cori,
ma le sorbe odorose
dentro i canestri
un canto ti raggiunge
nella luce,
tra i legni del solaio
trapela lieve,
non sai chi è la donna
che li intona
e t’entra dentro il sangue
e ti rallegra
e guardi lo scoiattolo
che sale
rapido per il tronco
e giunge al cielo
giugno 2016
Jacopo sul palco
Jacopo, tu non conosci
palchi,
non conosci
balconi o luoghi
che sopra gli altri
per la gioia s’alzano
o la rabbia
di chi ascolta,
tutto per te si svolge
a raso terra,
neppure sai
che ogni corpo
vive nei suoi confini,
che sfiorarlo
o urtarlo
non è permesso,
è solo nella terra
il tuo cammino,
ha cerchi e svolte
che tregua
non danno
Nella vecchia canonica
gelata
un giorno sopra il palco
sei salito,
aperto e sconfinato
più della Scala,
tu dei compagni
il più alto e luminoso,
quell’istante bocconi
sopra il legno
per un istante spezza
il sortilegio
che il tuo giorno assedia
e ossessiona
Ora sei tu
nel palco,
io di sotto,
tra gli altri,
che ti guardo.
febbraio 2019
Primavera triste
Più d’ogni altra primavera triste,
il male di vivere non lo incontri
solo in quel che cede
e si dissolve
ma nel fiore che s’alza dalla terra
nell’albero che s’apre
a nuove foglie
solo una beffa
questo cielo azzurro
il vento lieve
il sole che tiepido riscalda,
primavera brilla
a noi d’intorno,
ma i campi sono deserti
le piazze vuote,
primavera brilla
a noi d’intorno
e t’entra dentro il sangue
e lo raggela
aprile 2020
Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941, dove tuttora vive e insegna. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, tra le quali I luoghi persi (Einaudi 1994); Nel tempo che precede (Einaudi 2002); L’albero delle nebbie (Einaudi 2008); Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015), saggi e opere di narrativa. È anche autore di film. Tutte le raccolte precedenti le tre sillogi edite da Einaudi sono uscite in un unico volume dal titolo Tra alberi e vicende (Archinto 2009). Nel 2018 esce il libro di racconti Anime perse (Marcos y Marcos). La sua ultima opera di poesia è Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020).
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