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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

«Come le bambine non bambine»: recensione a “Demi-monde” di Silvia Righi

L’opera prima di Silvia Righi, Demi-monde (Nem 2020), potrebbe essere rivestita di una funzione paradigmatica, poiché molti degli elementi caratterizzanti la raccolta ci forniscono uno spaccato importante del nostro tempo sia da un punto di vista sociologico, sia da una prospettiva più strettamente poetica.

In riferimento al primo ordine di considerazioni, è impossibile non rinvenire una forte bi-direzionalità tra i versi di Righi e l’attuale contesto socio-culturale occidentale: in altre parole, l’autrice non avrebbe potuto scrivere quest’opera se non oggi e qui e, vicendevolmente, è solo una società quale quella in cui viviamo che avrebbe potuto partorire un testo come Demi-monde. Infatti, nonostante un ancoraggio ai personaggi e al climax della fiaba, un costante rimando ai miti greci e un’influenza non celata della cultura medievale e della poesia trobadorica, la raccolta di Righi contiene molteplici elementi topici della nostra contemporaneità. Primo fra tutti il ricorso al corpo, fotogrammato per lo più nella sua dimensione erotico-pornografica e assunto come anello di congiunzione tra l’essere nel mondo e l’essere-per-sé; la corporeità diviene per Righi il mezzo principe attraverso il quale affrontare il discorso identitario, mai identificabile come punto statico, ma sempre considerato nel suo passaggio da/a, nel momento del transito: non a caso, le tre sezioni che costituiscono la raccolta (Prima transizione; Seconda transizione; Terza transizione) esplicitano questa condizione di mutamento perenne, come se la realtà identitaria, anche di gender, fosse rinvenibile nel percorso più che nell’origine o nel traguardo. L’eliminazione dei confini, sia spaziali sia temporali, è altro dato da ascrivere a questa spiccata attualità dell’opera di Righi, dal momento che è stata la rivoluzione digitale a modificare significativamente il concetto di distanza nello spazio e nel tempo, ricollocando in territori senza argini una perenne possibilità di movimento e appiattendo i cicli temporali su un’unica linea di presente intensificato (l’iperpresente), che l’autrice percorre e al quale dà voce. Righi procede a un’esaltazione continua della virtualizzazione, da intendersi come reale in potenza e mai attuato, attribuendo al sempre possibile altrimenti una posizione di assoluta centralità, poiché è nella non-forma l’unica forma concessa e auspicata, nell’hic et nunc il solo tempo possibile e nel luogo di mezzo il territorio occupabile. Sebbene l’ambientazione di Demi-monde ci appaia, e sia, effettivamente lontana dai contesti urbani di transito nei quali Marc Augé impianta le radici della sua teoria dei non-luoghi, è proprio di non-luoghi che si popola la raccolta, a partire dallo stesso Demi-monde, spazio tra ciò che c’è e ciò che non c’è, tra il reale e il soprannaturale, tra l’umano e il non-umano.

La condizione di ibrido, altro dato identificativo della nostra epoca e invocata con convinzione da Righi, assume in quest’opera due declinazioni: da una parte è la commistione solita tra esseri di specie differenti, dall’altra è l’accostamento tra essere e non essere: «Lei è lei, / eppure è / e non sono io.»; «come le bambine non / bambine / di mille anni fa.». Un’ibridazione, dunque, che si fa promiscuità e chiave interpretativa del gioco pieno/vuoto e che si manifesta come via d’accesso a un’esistenza stabile ma, contestualmente, come simbolo del limite e della rinuncia alle infinite possibilità.

Non deve a tale proposito stupire la marcata esaltazione dell’eccesso e del molteplice perché l’uno, per essere tale, deve procedere per sovrapposizione abbondante di frammenti, a cui in parte spetta il ruolo di riconduzione all’uno, com’era negli Essays di M. de Montaigne, ma ai quali soprattutto tocca il compito di non fare esaurire il possibile e procastinare nuovamente la scelta ultima.

Da questo punto di vita, il merito principale di Righi sta nell’avere scelto immagini inusuali per raccontare quello che siamo oggi e avere rivestito la terra di mezzo, in cui viviamo, di un’atmosfera fiabesca e archetipica, nella quale il nuovo uomo assomiglia più a una strega o a una sirena che a un cyborg elettronico e dove tutti finiscono per muoversi però, più o meno consapevolmente, nel rettangolo di un palcoscenico, al quale infatti attiene una delle sfere terminologiche di riferimento della raccolta e cioè quella riconducibile al teatro, al sipario, alla scena, alla maschera, ai personaggi, all’illusione: «L’illusione / mai sarà più vera / come sulle false labbra di un falso.». La rappresentazione posta in essere da Righi, e che per certi versi richiama, nell’impianto teorico, la spartizione del soggetto tra i ruoli che, di volta in volta, è invitato a rivestire (E. Goffman), coinvolge anche la strutturazione stessa dell’opera, nella quale si alternano una voce da dentro e una voce fuori campo, come a volere sottolineare la presenza connaturata di almeno due sguardi; non a caso, l’occhio e la visione diventano in Demi-monde strumento per fare esperienza di sé e dell’altro.

La scrittura di Righi si avvale poi, come evidenzia anche Tommaso Di Dio nella prefazione, della commistione di unità di diversa provenienza; scrive infatti Di Dio: «In questo libro tutto è adoperato solo se può tornare utile allo scopo, sia esso un romanzo del ’700 o una serie TV, senza alcun pregiudizio, senza più né gerarchia né postmoderno snobismo». In effetti Righi riproduce, già a partire dalla scelta del titolo come lei stessa spiega in una nota introduttiva, l’inclusione di elementi alti ed elementi bassi, perché lo scopo della poesia non è quello di emulare i modelli né posizionarsi in una zona sopraelevata, bensì quello di creare un nuovo spazio o un modo nuovo di guardare il già esistente. Da ultimo, l’alternanza tra i versi delle prime due sezioni e la prosa dell’ultima, a indicare che la ricerca si estende anche sugli aspetti formali che Righi non tralascia ma verso i quali, al contrario, manifesta molta cura, come dimostrano l’attenzione alle scelte foniche e lessicali: «la figlia eretica, / divisa, è l’unica / erede del desiderio.».

Il poeta, scriveva Roberto Gigliucci nel suo saggio Melanconia (Rizzoli 2009), vorrebbe essere il falegname e anche il legno da lui stesso lavorato, poiché è continuamente mosso da un’aspirazione al tutto; Righi riesce a restituirci questa tensione, a farci essere con lei cacciatore e preda: «La cacciatrice che viene cacciata / ha memoria / di essere stata preda»; riesce cioè a ridare uno slancio autentico verso la completezza, che non smette di essere la grande utopia del nostro tempo. Se qualcosa manca, possiamo provare a cercarlo con ostinazione, come fa Krank ne La città perduta, come fa molta fantascienza; oppure tentare di crearlo, come Righi in Demi-monde.

Ritengo quindi l’esordio di Silvia Righi uno dei più convincenti della generazione alla quale l’autrice appartiene, per la sua capacità di aver saputo contestualmente elaborare e rimanere fedele ai modelli poetici e culturali da lei prescelti ed essere stata capace di metterli al servizio di una visione originale del contemporaneo, pur rimanendo al suo interno con convinzione e desiderio di conoscenza.


Resta, chiudi a chiave

il bosco non ci riguarda.

Dentro la camera

giocheremo al gioco del silenzio

come le bambine non

bambine

di mille anni fa.


V.


Se mi addormentassi

una notte, senza premonizioni.

Se mi addormentassi per trent’anni

la camera comprimerebbe gli oggetti

fino a ridurre le cose in sogni

e i sogni in mondi.


Ci siamo conosciute ovunque,

ovunque è stato un ritorno.


All’origine

s’incastra il dilemma del dolore,

le scelte sono le figlie

cresciute in abiti d’argento

a nascondere gambe magre come sedani.

Esiste come un’eccezione o un errore

la porta senza porta

nel trapasso non sei chi sei stata

né chi attende.


Ø


Orfano è la radice di erede.

La trasmissione fallisce se circola

lo stesso sangue e non

il desiderio.

Lei non possiede, deve riprendere

fare originariamente suo ciò

che è stato fatto di lei dagli altri

prima.

Non avrà il mio volto lo specchio

né il padre il suo. La figlia eretica,

divisa, è l’unica

erede del desiderio.


XI.


Le facce di una stessa moneta:

nessuno il padrone, nessuna ai suoi piedi.

E se non fosse stato per il trauma

questa lei non sarebbe stata scorticata

quindi partorita. Il tempo

che misura tutte le cose

deve avere una fine.

Esiste come un’eccezione o un errore

la porta senza porta,

nel trapasso si scindono come melagrane

chi è bianca non è rossa, chi è rossa non è bianca.


*


Voglio che sappiate che la creatura è molto sola. Ho voluto che apparisse sola. Però forse non è vero che non c’è nessun altro nel bosco: il mondo inorganico è l’altro. La creatura vorrebbe mutarsi in sasso, in pianta, in legno, smania per la loro solidità. Essa si vede solo per parti, benedetta e dannata, le sue estremità sono molteplici, e bucate. Se offrisse latte a una divinità colerebbe sulle pietre sbagliate. La creatura gira intorno allo specchio d’acqua, un giorno – le hanno detto o lei

crede o la leggenda narra – si vedrà a figura intera. Finalmente, completa.


Silvia Righi (Correggio, 1995), vive a Milano. Laureata in Lettere Moderne all’Alma Mater di Bologna, si occupa da cinque anni di comunicazione ed eventi culturali, collaborando all’organizzazione di manifestazioni come Festivaletteratura (Mantova) e Festa del Racconto (Carpi). Gestisce un gruppo di lettura under 35 presso la Biblioteca Loria di Carpi. È redattrice del blog MediumPoesia e ha curato insieme a Simone Burratti e a Stefania Margiacchi il progetto di poesia e arte contemporanea Paralleli. Sue poesie sono apparse su Formavera, PoetiOggi, MediumPoesia, Nuovi Argomenti. Nel 2020 ha pubblicato con la casa editrice NEM la sua opera prima, Demi-monde.

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