Sara Vergari

22 nov 20224 min

Le Rubriche di Alma: Alma & Zanzotto (I Appuntamento)

Letteratura ed ecologia

Fin dalla prima raccolta d’esordio, Dietro il paesaggio (1951), Zanzotto ha messo al centro del proprio discorso poetico il tema del paesaggio e della natura, declinandolo come essenza e tramite tra Storia, dimensione psico-fisica dell’individuo e attenzione ecologica al circostante. Un volume curato da Matteo Giancotti, Luoghi e paesaggi (Bompiani, 2013), raccoglie tutti gli scritti in prosa (articoli, saggi, interventi autobiografici) in cui Zanzotto affronta anche teoricamente il discorso sul paesaggio, dandoci una visione d’insieme del suo pensiero moderno e per certi versi antesignano di una questione oggi sempre più urgente. Partendo dalla connotazione geografica del paesaggio zanzottiano, questo è certamente legato al Veneto e alle zone di Pieve di Soligo, dove è nato ed è rimasto per tutta la vita. Non mancano le descrizioni morfologiche del territorio, che ci permettono di riconoscere immediatamente Padova, Venezia, le zone del Piave o i Colli Euganei. Tale riconoscibilità però non è cercata dall’autore per un motivo naturalistico, ma per collocarci ad esempio in un preciso contesto storico e sociale. Già dagli anni Sessanta, infatti, Zanzotto denunciava i danni ambientali dell’industrializzazione e urbanizzazione crescenti delle sue zone, come si legge in alcuni scritti: «resta quasi dovunque sfregiato il volto antico delle città e le campagne vengono infiltrate da una specie di sfilacciato tessuto urbano». È indubbia la sensibilità ecologica e l’avvertenza premonitrice di un pericolo le cui conseguenze sono ben visibili oggi. Ma questa cura e profonda attenzione verso la natura deriva da una sua concezione metafisica, dal considerarla quasi come una divinità che può sprigionare un potenziale poetico inesauribile. Se dunque paesaggio e poesia sono strettamente legati, anche quest’ultima viene messa in pericolo dall’atteggiamento moderno non curante e antropocentrico. Sta proprio qui l’intuizione zanzottiana che tiene insieme letteratura ed ecologia e che fa percepire entrambi come organismi aventi come oggetto di interesse la relazione tra individui e ambienti. Se pure non manchino delle descrizioni paesaggistiche vagamente romantiche o di ispirazione leopardiana, per Zanzotto la natura non è mai rifugio o negazione della realtà, ma diviene un testimone in presa diretta degli eventi storici e di quelli legati all’individuo, esplicitati dalla parola poetica e letteraria. L’eco della Prima guerra mondiale, ad esempio, risuona nei versi di Zanzotto in cui il paesaggio delle zone del Piave si fa testimone concreto della distruzione portata dalle battaglie, ma diviene anche metafora di una faglia psicologica e umana aperta dalla guerra. Tutta l’infanzia di Zanzotto, di cui il paesaggio biografico diviene un alter ego e un custode di memorie, è infatti segnata dalle ferite della Grande Guerra che ancora la sua terra riporta. Al fiume Piave, simbolo di questa sofferenza, Zanzotto si rivolge in un testo di IX Ecloghe, riconoscendogli il merito di aver contribuito non solo alla formazione morfologica del territorio, ma anche a quella del microcosmo antropologico: «Era ad era, minuzia a minuzia, / crescesti questi sedimenti /da cui prendemmo forma e forza a vivere». Il paesaggio è di fatti anche uno specchio dell’interiorità dell’Io, è ciò che possiamo definire come mindscape e non solo come landscape. A tal proposito Zanzotto, in un’intervista a Marco Paolini (Ritratti, 2001), dice:

Noi, in un primo tempo, siamo una specie di centro mobile, che si sposta, con noi stessi, ricentrando gli orizzonti e i limiti. Poi, a mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, ci accorgiamo di trovarci perpetuamente nascosti dietro il paesaggio, oppure davanti, o immersi in un continuo gioco del suo “trapungere”. Un paesaggio ideato come qualcosa che punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, che si aggira in mezzo, che cuce… oppure qualcosa che taglia. Quindi, a mano a mano che si accumula una nostra storia psichica, noi la depositiamo in questo paesaggio, che all’origine aveva già una sua autorità e che accoglie, poi, le ferite che noi gli inferiamo.

Il paesaggio, che già aveva una sua storia come il Piave le sue ferite di guerra, accoglie anche la storia psichica degli individui che vi abitano, fondendosi con essi, permeandoli. Per Zanzotto il paesaggio non si guarda frontalmente come un orizzonte o uno sfondo, si è dentro il paesaggio o in continua relazione con esso. In tal senso diviene quasi un apparato aggiunto al nostro corpo, e ugualmente un elemento da cui poesia stessa è rappresentata.

Perché siamo

(Dietro il paesaggio)

Perché siamo al di qua delle Alpi
 
su questa piccola balza
 
perché siamo cresciuti tra l’erba di novembre
 
ci scalda il sole sulla porta
 
mamma e figlio sulla porta
 
noi con gli occhi che il gelo ha consacrati
 
a vedere tanta luce ed erba
 

 
Nelle mattina, se è vero
 
di tre montagne trasparenti
 
mi risveglia la neve;
 
nelle mattine c’è l’orto
 
che sta in una mano
 
e non produce che conchiglie,
 
c’è la cantina delle formiche
 
c’è il radicchio, diletta risorsa
 
profusa alle mie dita
 
a un vento che non osa disturbarci
 

 
Ha sapore di brina
 
la mela che mi diverte,
 
nel granaio s’adagia un raggio amico
 
ed il vecchio giornale di polvere pura;
 
e tutto il silenzio di musco
 
che noi perdiamo nelle valli
 
rende lento lo stesso cammino
 
lo stesso attutirsi del sole
 
che si coglie a guardarci
 
che ci coglie su tutte le porte.
 

 
O mamma, piccolo è il tuo tempo,
 
tu mi vi porti perch’io mi consoli
 
e là v’è l’erba di novembre,
 
là v’è la franca salute dell’acqua,
 
sani come acqua vi siamo noi;
 
senza azzurra sostanza
 
vi degradano tutte le sieste
 
cui mi confondo e che sempre più vanno
 
comunicando con la notte
 

 
Né attingere al pozzo né alle alpi
 
né ricordare come tu non ricordi:
 
ma il sol che splende come cosa nostra,
 
ma sete e fame all’ora giusta
 
e tu mamma che tutto
 
sai di me, che tutto hai tra le mani
 

 
Con la scorta di te e dell’erba
 
e di quella lampada precaria
 
di cui distinguo la fine,
 
sogno talvolta del mondo e guardo
 
dall’alto l’inverno del nord.

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